Nel 2013 scrissi un post dal titolo “Il peggior nemico del Digital CMO? Spesso l’organizzazione aziendale (almeno per com’è fatta ora)” e in questi giorni mi è ricapitato sotto gli occhi.

L’ho riletto e ho deciso di scrivere la versione reloaded per questa fine 2017, con 4 anni di storia in più, alla fine di 12 mesi intensi.

CHE COSA NON È CAMBIATO

Prima di tutto il postulato del titolo: l’organizzazione aziendale è la madre di tutti i temi legati al digitale.

Se nel 2013 il tema della convergenza tra IT, marketing e tutte le funzioni aziendali era già forte ora è ad altissima intensità e richiede grandi doti relazionali in chi si occupa della trasformazione che inevitabilmente investe i modelli di business e i mercati.

Non a caso nell’ambito del Digital Business Council di Forrester, di cui ho il piacere di fare parte, in un recente sondaggio le prime due skill più richieste ai “Digital product manager” dei team sono risultate “essere un influencer naturale” e “parlare tutte le lingue del business”.

La difficoltà di trovare queste competenze resta alta, spostando l’asticella delle capacità digitali ormai in fase di diffusione nell’ambito del marketing ad un nuovo livello (sempre ammesso che restringere al termine “digitale” non sia riduttivo).

CHE COSA È CAMBIATO

Nel 2013 scrivevo di Digital come componente (ormai preponderante) del marketing, area che ancora oggi spesso viene vista come unico campo di attuazione dei team interni alle aziende.

In realtà però oggi il titolo del mio post oggi passa da “CMO Digitale” a “CxO” Digitale, perché le cose si sono parecchio complicate e se il marketing è diventato inevitabilmente digital ora la contaminazione tocca sempre più anche HR, Finance, Supply Chain e in definitiva tutta l’azienda.

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Fonte Brian Solis

Al punto che c’è chi scrive che la trasformazione digitale è ormai una responsabilità del CEO.

Un upgrade di livello che può essere un’ottima cosa ma che non semplifica necessariamente le strutture organizzative, e che anzi in assenza di chiarezza può alzare il livello di scontro a causa dell’interesse di sempre più persone a mettere il cappello su di un argomento che ora è strategico.

In caso di dubbi, vi basterà interrogare le grandi organizzazioni a proposito delle linee di riporto di chi porti nel nome un attributo “digital” e il numero e la distribuzione di queste persone nell’organigramma per capire che in pochi casi troverete una situazione uguale all’altra.

Non è detto che sia un male, se il meccanismo funziona in modo sano e coerente con le esigenze dell’organizzazione, ma è piuttosto esemplificativo di un mondo in divenire.

CHE COSA È CAMBIATO MA NON ABBASTANZA

Finalmente sul piano del marketing, dell’e-commerce, della comunicazione digitale anche le imprese italiane stanno iniziando ad assumere persone che vengono da questi percorsi, e nei casi migliori stanno valorizzando anche i propri talenti interni.

Cresce infatti la consapevolezza del fatto che servano delle competenze mirate per seguire questi ambiti.

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Purtroppo tale consapevolezza però non cresce abbastanza, e questo diventa piuttosto evidente quando si passa da un livello medio di responsabilità, dove oggi di solito c’è quantomeno uno specialista, al livello strategico e dirigenziale in cui vedo ancora persone magari brillanti ma non dentro la trasformazione digitale e che quindi ricoprono ruoli che onestamente non competono loro.

La cultura del Digital, dei team multidisciplinari, dell’abbattimento dei silos inizia per fortuna ad essere presente ma non è ancora matura.

In gioco c’è l’innovazione in senso generale, che non è solo disruption ma anche capacità di crescere su quanto già esiste.

Mi è piaciuta molto in tal senso questa intervista a David Gram, ex direttore Lego Future Lab, che dice “Servono organizzazioni ambidestre, che da un lato coltivino il proprio core business con uno sviluppo incrementale a basso rischio (rendere sempre migliore ciò in cui si è già bravi e si eccelle) e che, dall’altra parte, facciano una sperimentazione radicale (“radical exploration”), fuori dagli schemi del core business e del miglioramento continuo”.

I dolori del (giovane in spirito) CxO non sono ancora finiti, ma la strada finalmente sembra aperta nella giusta direzione!