La settimana scorsa il periodo di fine estate è stato scosso da una news che pure era nell’aria da parecchio tempo, ossia il passaggio (salvo intervento dell’antitrust) del 47% di YNAP da Richemont a Farfetch, oltre alla cessione di un altro 3,2% a Symphony global.
La notizia mi ha portato alla mente già a caldo alcune considerazioni che poi in questi giorni successivi ho elaborato meglio, allargando la vista dal caso in oggetto a delle considerazioni più ampie.

IL DEBITO TECNICO COLPISCE ANCORA
YNAP con il portale Yoox e poi con le successive estensioni e acquisizioni è stata una società pioniera della sfera delle vendite online e Federico Marchetti ha avuto il genio e il coraggio di occupare una fetta di mercato, quella del fashion, dove nessuno credeva che le vendite online avrebbero mai preso piede.
Così facendo, soprattutto in Italia e Francia dove anche i grandi retailer multimarca hanno approcciato lentamente e senza convinzione l’online rispetto al mondo anglosassone, Yoox è diventato il player commerciale e, successivamente, anche il partner operativo e tecnologico di riferimento per i brand (specie del lusso) per gestire i propri siti di vendita online.
Per fare questo in un’epoca dove l’ecosistema tecnologico a corredo era tutt’altro che maturo YNAP ha sviluppato le proprie competenze e tecnologie proprietarie, che sono state per lungo tempo un vantaggio chiave sia nei siti multi marca che per quelli dei brand “powered by” (il modello white label).
La stessa strada è stata poi percorsa da Farfetch.
Tuttavia il mercato è andato avanti con la crescita delle vendite online e con esso piattaforme tecnologie sempre più avanzate portate avanti da colossi del software con mezzi enormi, e il problema del debito tecnico si è affacciato anche per un pure player come YNAP, cosa per altro normalissima per i pionieri che hanno sviluppato in casa tecnologie che all’inizio non esistevano.

I costi di questi cambiamenti, soprattutto se fatti in modo massivo e magari non con il dovuto anticipo, sono costosi e complessi e possono pesare sui bilanci anche di un grande gruppo come Richemont.
Per questo si deve sempre prestare massima attenzione ai vincoli che la tecnologia che abbiamo in casa pongono nel limitare l’esperienza dei clienti e la possibilità di giocare alla pari con la propria competition.
Anche perché la vita non è così semplice nemmeno per i big della tecnologia ancora più grandi quando i clienti cambiano, e come per i colossi dell’era pre-digitale, spesso la minaccia arriva da player imprevedibili.
ANCHE PER I BIG DIGITALI LA COMPETIZIONE È SEMPRE PIÙ COMPLESSA
Si sono scritti negli anni libri interi sui grandi fallimenti di aziende come Blockbuster, Nokia, Kodak e tante altre che non hanno saputo cogliere i cambiamenti della tecnologia ma, ancora di più, non hanno saputo interpretare correttamente il significato del proprio prodotto per il cliente, scambiandolo per un asset materiale: Kodak che ha scambiato le pellicole con la capacità di immagazzinare ricordi, Blockbuster che ha confuso le videocassette con la voglia di intrattenimento domestico e così via.
Anche alcuni big della tecnologia ora sembrano vedere delle nubi all’orizzonte, sicuramente complice il livello di scenario macro economico, e non è sempre chiaro se ci sia la totale consapevolezza di che cosa stia succedendo oppure se ci sia un rischio reale di avere nuovi casi di studio negativi.
Ne è un esempio abbastanza noto al grande pubblico e ai media Facebook, che ora per rilanciarsi ha creato il ben noto hype sul metaverso salvo poi essere solo parzialmente pronta con le proprie soluzioni.

Ci sono però casi più sottili (per ora) ma ancora più significativi e ne riporto solo uno, quello di Google con la sua search e le sue mappe nei confronti delle generazioni più giovani. Il senior Vice President di Google Prabhakar Raghavan ha evidenziato che, ad esempio, TikTok sta iniziando a insidiare non solo il business dell’advertising di YouTube ma (insieme a Instagram) anche quello ancora più radicato della search e delle mappe: “In our studies, something like almost 40% of young people, when they’re looking for a place for lunch, they don’t go to Google Maps or Search. They go to TikTok or Instagram”.
Un cambiamento poco comprensibile per chi è meno giovane ma perfettamente logico per il tipo di consumo digitale di queste fasce di età, dove vale più la raccomandazione di altre persone che la logica dell’algoritmo e che, se ciò non bastasse, non hanno mai visto una mappa cartacea che di base è il modello, digitalizzato, su cui si basano i software di mappe oggi sul mercato.
E QUINDI? PARTIRE DALLE NECESSITA’ DEI CLIENTI E’ SEMPRE IL PUNTO DI PARTENZA
Il debito tecnico è sicuramente un tema rilevante ma l’unica vera chiave di lettura, per una videocassetta come per un servizio in cloud, è il senso ultimo che il cliente attribuisce alla sua relazione con l’azienda. Spesso è anche l’obsolescenza tecnologica poi a impedire di colmare adeguatamente il gap ma il punto di partenza è più strategico e profondo.
Chiudendo il cerchio con l’argomento iniziale delle vendite online, in molti hanno stressato (correttamente) il fatto che certi numeri nelle transazioni digitali sono stati favoriti dalla situazione eccezionale della pandemia e che ora c’è voglia di tornare a vivere delle esperienze fisiche, specie in alcuni comparti come la moda e il lusso. E questa notizia legata a YNAP è stata letta così anche nel nostro paese.
Tutto giusto ma non bisogna perdere di vista la bussola della centralità del cliente: durante la Pandemia il boom delle vendite online è stato sicuramente spinto dall’impossibilità di accedere al contesto fisico ma nel frattempo anche le persone meno avvezze all’e-commerce hanno preso confidenza con questa modalità di interazione con i brand, mentre per necessità anche i canali fisici si sono contaminati molto di più con la tecnologia.
Ora, sarebbe un errore limitare la crescita dell’e-commerce solo ad una bolla e riportare tutto allo status quo. I clienti si aspettano invece di non dover scegliere tra online e offline e non vedere interrotta la propria esperienza per delle tematiche organizzative interne (tema tutt’altro che nuovo!) o per il debito tecnico, che tanto è figlio a sua volta dell’organizzazione.

Le montagne russe degli ultimi anni hanno solo creato più consapevolezza ed alzato le aspettative, ma non le hanno create dal nulla.
Una partita questa dell’esperienza omnicanale che è in definitiva anche il vero punto chiave per tutti produttori di software as a service e per gli outsourcer che devono dipanare una matassa complessa che passa sia per la tecnologia che per la difficoltà poi di unire quest’ultima con i modelli interni delle aziende.
In tutto questo processo, una corretta comprensione della tecnologia è vitale e, come ho scritto anche qui, la customer experience è qualcosa di molto più ampio della sola azione di marketing, coinvolge tutta l’organizzazione e passa anche per l’employee experience.
Orchestrare processi e tecnologie con un occhio che guarda chi è il destinatario e quali sono gli obiettivi (non solo i costi o la soluzione più in voga del momento) è quindi davvero la professionalità del futuro, e di quello più prossimo.
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