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Il Blog di Gianluigi Zarantonello. Strategia, digital transformation, tecnologia e marketing nell'ecosistema digitale

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I social media, la censura e l’educazione civica digitale

In questi giorni è rovente il dibattito sulla sospensione di Trump dai vari social, Twitter in testa, che ha fatto nascere appelli incrociati tra la libertà della rete e la stanchezza per la violenza verbale e le fake news che impazzano online. Continua a leggere “I social media, la censura e l’educazione civica digitale”

I video su Facebook: una nuova prova che una strategia vincente non guarda solo al canale

Questo post prende spunto da un articolo dedicato al sorpasso di Facebook su YouTube in termini di visualizzazioni di video (su desktop).

fb vs youtube Continua a leggere “I video su Facebook: una nuova prova che una strategia vincente non guarda solo al canale”

Politica, società e digitale: mondi diversi o semplicemente declinazioni di una stessa realtà?

La prima conferma del 2013 è che i media e la politica nostrana hanno scoperto i social network, e sopratutto Twitter, in chiave di comunicazione elettorale, abbandonando le ultime resistenze sotto i colpi dei cinguettii del premier Monti, che si è dato anche a una sessione di “conversazione” live di cui trovate un’accurata trascrizione qui.

In molti si sono subito attivati per discutere dei pro e dei contro di questi nuovi canali di comunicazione politica, sia in chiave negativa in quanto non sposterebbero voti e sarebbero solo un simulacro della democrazia, sia in ottica positiva per l’apertura al nuovo (e con qualche stoccata ai critici).

Visto che in rete c’è ottima documentazione circa i fatti digitali in questione non ho interesse a analizzare i particolari e le scelte di Monti e degli altri leader italiani, mi piace però fare qualche considerazione sui social media in politica ma anche negli argomenti sociali e civili in genere.

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La prima nota è che Facebook, Twitter e compagnia non possono essere un mezzo auto consistente come pretenderebbe qualcuno e quindi è ovvio e naturale che siano una parte di un insieme di strumenti più vasto e che lo scopo sia prima di tutto quello di amplificare un messaggio e una storia che nascono altrove.
Lo si può fare poi più o meno bene, e secondo me chi lo fa in modo coordinato con altri mezzi di espressione dimostra di avere capito meglio, e non peggio.

Secondo punto, un media come Twitter si presta magnificamente all’aggregazione di persone che discutono su di un argomento ma è non così adatto all’approfondimento in quanto 140 caratteri sono pochi e ancora meno sono gli utenti che seguono eventuali link (i più fanno RT o commenti senza leggere).
Facebook invece non permette facilmente questo tipo di aggregazione, anche a causa del rumore di fondo che genera, mentre gli altri mezzi in Italia sono di nicchia.
Difficile dunque pensare a dibattiti articolati e documentati, l’output non può che essere invece quello di concetti brevi e, nel caso peggiore, di slogan.
Basta dunque non aspettarsi altro e intercettare piuttosto quanto può uscire di buono dalla conversazione globale sui diversi argomenti (tema non nuovo ma ancora piuttosto disatteso).
Come giustamente rileva Vincenzo Cosenza analizzando la presenza web dei nostri politici, finora invece poco si è ascoltato, a differenza di quanto è stato fatto negli Usa dallo staff di Obama.

Ancora, è piuttosto ovvio che in un paese disamorato della politica a interagire siano soprattutto i relativamente pochi supporter, oppositori e influencer/media/giornalisti e il fatto che la stampa e la tv riprenda gli slogan (in 140 caratteri o meno) non è altro che la prosecuzione di talk show, giornali e commenti televisivi vari in cui non c’è ormai più alcun tipo di approfondimento. Anche perché tale prodotto giornalistico ha poca domanda.
Episodi come quello raccontato qui nascono, a mio avviso, anche dall’abitudine di sentire attacchi vuoti e offensivi perché tale è la modalità di comunicazione cui siamo esposti.

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Non che per questo i social media siano inutili alle cause politiche e anche sociali: il successo della campagna elettorale di Obama (e soprattutto del fund raising collegato) ne è un esempio clamoroso, come per certi versi lo sono state anche le primavere arabe o altri movimenti democratici.
Altrettanto corretto poi è evidenziare come non sia tutto trasparente e come ci sia un hype mediatico su questo settore.

Ma ogni cosa nasce prima di tutto da un contesto: i social media sono solo uno dei tanti mezzi con cui una società esprime i propri valori e le proprie priorità ma non sono un mondo separato, anzi, ormai sono parte della realtà di un pubblico meno elitario e addicted di un tempo (che spesso fatica a concepire questa “volgarizzazione”).
Dove questa società si muove attorno a qualcosa che veramente unisce, entusiasma e coinvolge anche un piccolo cinguettio può assumere un significato rilevante. Altrimenti diventa una recita online, e ancora una volta che cosa c’è di nuovo rispetto a un comizio politico?

Molti leader e capi di Stato ormai sono su Twitter o su altri social, ma non è questo a fare la differenza.
Il digitale non può dare sostanza a ciò che non ne ha e lo stato di salute della nostra democrazia dubito passi solo dal livello di competenza nell’usare i social o nel fatto che i nostri politici twittino in prima persona o meno.

Che ne dite?

Finti follower, tanto hype e una domanda: qual è l’obiettivo per cui si comprano profili sui social?

In questi giorni ha destato molto scalpore il caso sollevato da Marco Camisani Calzolari che ha comprato con successo un grosso quantitativo di follower finti su Twitter a un costo irrisorio, per dimostrare la facilità e la diffusione di queste pratiche.

Un esempio di vendita di fan

Il tutto ha avuto ampio riscontro anche sui media generalisti che hanno gridato allo scandalo rispetto questo tipo di comportamenti scorretti, assolutamente deprecabili ma purtroppo non nuovi agli addetti ai lavori.

Come giustamente rilevato da Marco ci sono molti che fanno i furbi ma io trovo anche che ci sia una colossale ignoranza su tutte queste tematiche da parte di aziende (e media), con il costante pensiero che certi strumenti che si usano (spesso male) per finalità private siano per questo già patrimonio di conoscenza dell’azienda. E se anche ciò non fosse, abbiamo sempre alla porta una schiera di guru del settore che dopo aver speso una quindicina di giorni online si sentono pronti a cambiare le sorti strategiche delle aziende.

Mancano invece alcuni elementi di base, che proverò a sintetizzare in pochi punti.

La prima domanda importante che nessuno si pone è: che cosa me ne faccio di questi follower o fan che acquisisco? Poniamo che io abbia raggiunto con politiche scorrette un volume elevato di persone che figurano sulle mie pagine social, di cui però non so praticamente nulla e che non interagiscono con me in alcun modo: che valore hanno?
Forse solo quello di mostrare ai vertici aziendali che abbiamo un caso di successo (?!?) sui social network che a loro volta sono “lo strumento di marketing del momento”.

La faccenda poi si lega a doppio filo al tema dei social media come parte di un ecosistema digitale che ciascuna azienda può attivare per raggiungere i propri obiettivi attraverso una specifica strategia.
In questa frase ci sono già due elementi che chi acquista dei fan al chilo omette: gli obiettivi, che non possono essere un mero “io ho più fan di te”, e la strategia digitale complessa che dovrebbe portare l’azienda a costruire dei database/community proprietari e attivare diversi mezzi di cui i social media sono solo una parte, seppure importante.

Infine, se vogliamo iniziare a parlare di ROI non possiamo non considerare la differenza fra fan attivi e semplici numeri, anche perché solo gli attivi producono dei dati davvero utilizzabili in ottica di big data e business intelligence.
Ma mi sembra che se ad oggi stiamo ancora discutendo sul numero grezzo il mondo quel mondo è molto molto lontano e la scelta di utilizzare certe piattaforme tecnologiche è dovuta solo all’hype mediatico e alla moda. E dunque la delusione è inevitabile, tanto per le pmi che per i grandi colossi.

Voi che ne dite?

Nuvole, dati e tanti soldi: cosa sta succedendo in questi giorni online

Non c’è che dire, le  ultime settimane sono state decisamente vivaci online, nell’attesa della favolosa (e troppo gonfiata?) IPO di Facebook.

Proprio il gigante di Zuckenberg si è dato da fare più di tutti, con l’acquisizione di Instagram per il notevole (!) prezzo di 1 miliardo di dollari e, subito a ruota, dall’acquisto di Glancee (una volta tanto, start-up italiana che è riuscita a farsi sentire all’estero). Nello stesso periodo, Google ha lanciato finalmente il suo servizio di storage cloud Google Drive, mentre Linkedin ha acquistato SlideShare per quasi 119 milioni di dollari.

Posto che resto sempre affascianato dai capitali che girano oltre oceano per questo tipo di operazioni, condivido l’analisi fatta da Vincenzo Cosenza per quanto riguarda il fronte Facebook: il gigante dei social network sta acquisendo prima di tutto know how per competere nel campo più significativo e promettente (anche per i venture capital), il mobile.

Non da meno poi è Google, visto che sia la creazione del marketplace Play sia il lancio di Drive fanno parte di una logica di ecosistema digitale in cui Big G vuole legare i suoi utenti attraverso un reticolo di servizi svincolati dal device, fermo restanto che con Android la presenza di Mountain View in questo mercato è enorme.

Cloud

Cloud e cellulari, con accesso a tutti i dati e i servizi in maniera indifferente rispetto agli strumenti usati: lo avevo abbozzato già 2 anni fa e credo che sia questo il terreno di battaglia del prossimo futuro, in cui infatti sono scesi anche i player “tradizionali” Apple (con iCloud) e, tardivamente, Microsoft (con Skydrive) che stanno offrendo servizi al mercato dei consumatori finali (che già usufruiscono di certi strumenti senza saperlo).

L’obiettivo vero è però alla fine quello di agganciare al proprio ecosistema digitale le nuove generazioni sempre connesse e i “nativi digitali, forse anche a scapito della redditività immediata, sfruttando al meglio il modello fremium e i costi sempre più bassi dello storage (pensate cosa vuol dire regalare a milioni di utenti 2 o 5 GB e vendere a 800 dollari mese 16 tera come fa Google!).

Rispetto al punto dello storage, è bene anche ricordare che non si tratta di mondi solo virtuali, visto dietro ci sono grandi macchine hardware, il ferro insomma, e questo dà un senso di tangibilità a quello che sembra un universo evanescente di bit.

Questi grandi ecosistemi fatti di software, cloud e dispositivi mobili (non solo cellulari) forse non saranno la fine del web pronosticata da Chris Anderson qualche tempo fa ma sicuramente segneranno un’evoluzione significativa ed essere dentro o fuori potrebbe fare la differenza per sopravvivere al momento in cui i social (e in generale i player web) come li conosciamo ora verranno superati da nuovi paradigmi.

Insomma siamo solo all’inizio…e voi, che pensate di questo nuovo scenario competitivo?

E se dall’economia dell’attenzione ci stessimo spostando verso l’economia dei dati?

Uno dei grandi problemi che i brand e gli individui hanno oggi è quello di poter emergere dal rumore e dall’overload di informazioni per poter essere rilevanti verso un certo pubblico, nicchia o un mercato di massa che sia.
È un tema forte dell’economia dell’attenzione in cui ci troviamo: gli strumenti per comunicare ormai sono alla portata di tutti, moltissimi li usano (bene o male, ma non è questo il punto), pochi invece ascoltano e ne scaturisce un gran rumore, in cui è difficile cogliere cosa ci interessa.

Per ovviare a questo ci si attrezza, in vario modo: la content curation è un tema forte del momento, si continua a parlare di web semantico e di nuovi strumenti di ricerca (un’altra volta vorrei discutere di Volunia) e, in genere, si fruisce dei nuovi media attraverso singole applicazioni che consentono di fare agilmente poche cose alla volta.

Chi vuole dunque fare marketing e strategia all’interno di questo contesto sempre più affollato oggi si concentra molto sul riuscire a farsi sentire. E molto poco sull’ascolto.
Ma io intravedo dietro a questa bagarre un’opportunità straordinaria, e difficile da sfruttare senza cognizione di causa, che è quella dei dati.


Pensiamoci un attimo: se vediamo l’ecosistema digitale odierno (ribadisco: ecosistema) e quello di business più in generale probabilmente non ci sono mai state tante possibilità di raccogliere, analizzare, correlare informazioni che vengono dalle fonti più disparate, online e offline, via computer o via altri device (primi fra tutti i cellulari).

É il tema di the big data di cui ho parlato altre volte recentemente e su cui stanno costruendo la loro fortuna alcuni dei big della nuova economia: Facebook e Google ad esempio fondano la loro redditività sulla vendita di spazi pubblicitari che si basano sulle informazioni e sui comportamenti dei propri utenti, con una precisazione e misurabilità sconosciuta ai vecchi media.

Mark Zuckenberg mentre illustra Open Graph - fonte: searchenginejournal.com

Sulla loro scorta, anche alcune grandi company private stanno iniziando a correlare e integrare tutti i dati in loro possesso, e chi ne ha i mezzi, come Walmart, si sta spingendo oltre con dei laboratori dove si costruiscono nuovi modelli di business.

Se il trend restasse questo il livello della sfida si alzerebbe notevolmente, in quanto:

A) basare le proprie strategie sulla comprensione e l’ascolto è molto più difficile che comunicare verso segmenti che abbiamo bene in mente ma che forse non esistono nella realtà. E non è poi un tema del tutto nuovo o solo legato ai media digitali.

B) raccogliere e strutturare i dati necessari a sviluppare il punto precedente è molto più complesso e oneroso che mettere una persona (magari in stage) a postare qualcosa su Facebook secondo l’ispirazione del momento

C) i dati vanno raccolti in una molteplicità di modi ma con una regia coerente alle spalle: ecco che tutti gli strumenti devono essere visti come un ecosistema che non può essere fatto di camere stagne e senza collegamento

D) qualcuno deve essere in grado di interpretare in una visione più ampia queste opportunità, leggendo in modo corretto le informazioni e trovando nuovi modi di costruire opportunità.

Guardando il tutto da un punto di vista economico la scelta sembra logica: si passa dal competere per una risorsa scarsa (l’attenzione) allo sfruttare una abbondante (il dato/informazione). Allo stesso tempo però non è molto interessante stare seduti su di un lago di petrolio se non lo si sa estrarre, raffinare e utilizzare (e/o anche vendere). E qui tornano in campo le persone e le nuove professionalità.

A mio avviso infatti una separazione netta fra “tecnologia” e “funzioni di business” perde di senso ma nelle nostre aziende questa evidenza ancora oggi fatica ad affermarsi.

Voi che cosa ne pensate? É troppo presto? É un trend momentaneo (io non credo)?

Social Network in Italia, oltre a Facebook c’è di più?

Eccoci di ritorno dopo una più che necessaria pausa estiva!

In questi primi giorni stavo ricapitolando dunque vari progetti aperti sui social media e mi ponenvo un quesito: in Italia oltre a Facebook, per uso consumer e non professionale, quali sono i servizi online realmente diffusi e utilizzati attivamente (su questo ho creato anche sondaggio su Linkedin)?

Preciso che per uso attivo intendo quelle attività dove c’è una reale partecipazione e produzione di contenuti, oltre alla fruizione di quelli creati da altri. Questa distinzione non è oziosa, per esempio nel caso di YouTube c’è una bella differenza fra chi guarda i video e che invece li crea e li pubblica.  Inoltre in questo discorso sto riflettendo solo sugli usi privati, generalisti e legati al tempo libero di persone non addette ai lavori.

In altri paesi, nella mia percezione almeno, strumenti come Twitter sono generalisti e di larga diffusione mentre in Italia sono ancora legati a mondi professionali o di interesse molto specifici. Anche la crescita notevole del mobile surfing sembra però muoversi sopratutto attorno alla sfera di Facebook o a servizi “classici” come la mail.

Più vivace è la scena dei blog tematici (fashion, tecnologia) mentre ormai l’utilizzo degli strumenti mediali moderni rende meno attrattivo il blog come diario personale.

C’è da dire che questa situazione di limitato utilizzo generalista e ludico non deve essere un freno all’utilizzo del social media marketing, anzi la specializzazione dei vari strumenti costituisce un’ottima occasione per raggiungere determinati pubblici sulla base di una corretta strategia e selezione del target, senza contare la rapida evoluzione di questi fenomeni.

Mi piacerebbe però conoscere la vostra opinione, a parte Facebook gli altri social in Italia sono usati in modo attivo, anche fuori da argomenti tematici e professionali? Ossia dove commentereste l’ultimo film visto o condividereste le portate della cena appena conclusa? 🙂

Il web è sempre più una questione di location?

Nelle scorse settimane mi è capitato di leggere una serie di articoli, commentare dei post e guardare dei video che in vario modo hanno ispirato questo mio contributo di oggi.

Mi viene da pensare che il web, in particolare quello di tipo social, sia sempre più orientato ad uno dei concetti che non molto tempo fa sembrava secondario e superato: il luogo.


Il primo elemento che salta agli occhi è lo sviluppo dei social media geocalizzati: Foursquare, Google Latitude, Gowalla stanno diventano sempre più interessanti, anche per il business, come ben spiegato in questo post di Vincos Blog.

Anche senza una geolocalizzazione così spinta poi i social network più diffusi, Facebook in primis, sono sempre più utilizzati sui dispositivi mobile, legandosi all’esperienza contestuale dei navigatori.
Ancora, risorse ipertestuali come i QR Code o la realtà aumentata poi si possono legare all’esperienza e alla fruizione di un luogo specifico, così come il più “antico” Blue Tooth.

Infine, oltre al puro tema tecnologico, avverto un’attenzione sempre maggiore all’integrazione fra online e offline nei media sociali, un aspetto strategico che alcune realtà (come l’italiana Connecting-Managers) avevano già individuato diversi anni fa.
L’aggregazione sociale sul nuovo web spesso sente il bisogno di sfociare in momenti di incontro personale che la tecnologia favorisce (e non impedisce) e allo stesso tempo delle realtà assolutamente locali trovano modo di esprimere la loro aggregazione attraverso il social web.

Esempi di quest’ultima tendenza sono tanto i ClubIn quanto i network iperlocali come Mirano Commnuity Network, forme evolute e interessanti di interazione fra locale e globale.

Tutti i nuovi device mobili, a partire dall’iPad, non faranno secondo me che aumentare la dialettica fra chi si muove nello spazio fisico e contestualizzato e i navigatori che seguono questa persona in rete, ovunque essi siano.
Ci sarà da capire al più presto quale potrà essere il modo migliore di utilizzo per le aziende.

Voi che ne dite di tutto ciò?


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I social plugin di Facebook e la comunicazione delle aziende

Durante la settimana scorsa si è parlato molto dei nuovi social plugin di Facebook che permettono di integrare i siti web con il più famoso social nework del mondo, le funzioni sono numerose e molto interessanti, vi rimando per i dettagli a Young Digital Lab e a Vincos Blog per una trattazione dettagliata.

Dal punto di vista di Facebook l’approccio strategico è impeccabile: forti della loro dimensione e, mi permetto di dire, anche della continua attenzione mediatica, Zuckenberg & Co. hanno messo a disposizione dell’intero web un kit facile da integrare, familiare agli utenti negli aspetti di comunicazione e molto trendy per chi vuole rendere il proprio sito davvero social. In cambio Facebook si garantisce traffico e, soprattutto, la creazione di un proprio ecosistema (iPhone docet) dal quale trarre numerosi benefici, primo fra tutti una mole enorme di informazioni sui gusti degli utenti, entrando nel vero business di Google e, probabailmente, anche di Twitter.

Che opportunità offre questa novità alle aziende? Ottime, sicuramente vale la pena di ragionare sull’implementazione di questi strumenti nei propri siti (io sto sperimentando il pulsante I Like qui), che possono aiutarvi seriamente nella vostra strategia di rendere la vostra attività ben distribuita sul web.

Credo però che vada ricordato un aspetto che tende a sfuggire ai più: è il nostro webmarketing che deve trarre beneficio da Facebook e non viceversa.

Ne ho già parlato in passato, si tratta del dilemma dei social media, meglio inventare ogni volta la ruota o consegnare ad altri i propri clienti? E’ corretto infatti evidenziare, ad esempio, che i nostri fan su Facebook sono utenti di Facebook e non nostri e che se domani il social network dovesse chiudere noi di queste persone non avremo più traccia. D’altra parte però non si può nemmeno pensare di creare un proprio social network, un proprio YouTube e così via quando fuori ci sono già, più popolati e qualitativamente migliori dei nostri.

Il mio invito dunque è quello di usare tutti i social media che siano coerenti con la vostra strategia web ma di non farne un sostituto del vostro sito, al quale tutti questi canali devono riportare più navigatori possibili da far registrare e fidelizzare per azioni future.

In questo senso i social plugin di Facebook sono sicuramente meno rischiosi in quanto vi obbligano quantomeno ad avere una web page e vi permettono di promuoverla senza fatica, fate attenzione però a non appiattirvi solo su questi strumenti e coltivate le relazioni con i vostri clienti e prospect online in tutti i modi possibili.

Attendo i vostri commenti.

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