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Il Blog di Gianluigi Zarantonello. Strategia, digital transformation, tecnologia e marketing nell'ecosistema digitale

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Mobile o…mobile first? Questo è il dilemma!

Lo avevo scritto recentemente, l’Italia si sta digitalizzando e uno dei fattori trainanti, prima ancora della penetrazione internet (ancora inferiore del 10% alla media europea) è sempre il mobile, specie se abbinato all’uso dei social (penetrazione da mobile del 3% oltre la media europea a parità di percentuale di utenti social attivi). Continua a leggere “Mobile o…mobile first? Questo è il dilemma!”

La rivista #Selfie e un po’ di (psico)sociologia da ombrellone, ma non troppo

In vacanza, e quindi con un po’ di calma rispetto al solito, mi sono imbattuto nella copertina del nuovo periodico “Selfie” girando tra i miei social e, come penso molti voi, sono rimasto in prima battuta un po’ perplesso, in particolare leggendo gli strilli di copertina. A dire il vero ho pensato subito a un “Cioè” reloaded.

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Sono i media digitali che si sono imbarbariti o forse dobbiamo guardare un po’ meglio dentro la nostra società?

In settimana ho letto due articoli, per coincidenza casuale legati entrambi all’argomento di cronaca dell’elezione del nuovo Pontefice, che mi hanno fatto venire voglia di tornare sul tema dell’utilizzo delle nuove tecnologie da parte delle persone e, purtroppo, su alcune degenerazioni che stiamo osservando: il primo testo è di Massimo Melica e il secondo di Antonio Lupetti.

Premetto che non scrivo queste righe per particolari vene sociologiche quanto piuttosto perché nel mio lavoro mi occupo di studiare l’ecosistema digitale e il modo in cui le persone usano gli strumenti online e offline nella loro vita, in particolare ho lavorato sul tema dei social media fin dal 2002 e sul mobile web dal 2005 e dunque ho potuto apprezzare a pieno certi cambiamenti nel tempo.

Siamo sempre più aggressivi online (Image by © Royalty-Free/Corbis)
Siamo sempre più aggressivi online (Image by © Royalty-Free/Corbis)

Il mio punto di partenza è che nell’ultimo anno sul (social) web, declinato anche in versione mobile, sono sbarcate davvero le persone comuni, tanto è vero che anche la politica ci ha voluto mettere il naso per le elezioni, pur con diversi esiti che ho già avuto modo di commentare.
Per gli early adopters questo ha sicuramente significato un abbassamento della qualità delle conversazioni e di parte dei contenuti, ma per chi si occupa di digital marketing con un occhio strategico è significativo vedere come l’accesso si sia allagato e come ora la multicanalità rispecchi molto più da vicino la realtà sociale del paese, nel bene e nel male (e con le dovute cautele nell’analisi).
Per molti di questi “nuovi” utenti non c’è stato il tempo di imparare a usare i mezzi e comprenderli, il target più adulto infatti non è entrato a pieno nei meccanismi per ragioni culturali, mentre i più giovani si sono trovati catapultati quasi automaticamente dentro questo mondo multicanale e social, dove la pervasività dei device tecnologici è radicata e sfuma sempre più la percezione del confine fra ciò che è tangibile e ciò che è digitale.

La pervasività dei dispositivi tecnologici
La pervasività dei dispositivi tecnologici

Per certi versi insomma la diffusione tecnologia è andata più veloce della sua comprensione, e le campagne di sensibilizzazione, di cui ho parlato in tempi ancora non sospetti, non sono state ancora abbastanza incisive. 

Io però non credo a quelle visioni secondo cui la colpa di certe situazioni va data al mezzo, le persone plasmano ciò che viene dato loro da usare sulla base di un contesto più ampio e certi fenomeni partono da lontano.
Prendiamo ad esempio il desiderio di visibilità a tutti i costi, l’interesse morboso per il banale e il trash, la voglia di cavalcare le polemiche e le risse verbali: il mondo dei reality show e di molti programmi televisivi ha preceduto di gran lunga le cose di cui discutiamo oggi e la vera grande differenza non sta dunque nei concetti ma nell’accesso universale e semplice ai mezzi di comunicazione, che ora sono nelle mani del singolo a costo zero e con una visibilità potenzialmente globale.

Un approccio simile può aiutarci a comprendere un altro aspetto, quello della velocità che porta a diffondere in automatico le cose più assurde senza verifica e approfondimento. 
Da tempo le persone dedicano una quota minore di attenzione a capire in profondità le cose che sentono, quale che sia il mezzo che abbiano a loro disposizione, a causa dell’enorme quantità di stimoli che ricevono ogni giorno.
Allo stesso tempo, come detto queste stesse persone oggi possono accedere a costo zero a dei mezzi per produrre testi, foto e anche video gratuitamente e con delle piattaforme di publishing che garantiscono loro visibilità potenzialmente globale verso un pubblico che però a sua volta ha poca quota di attenzione disponibile.
Questo porta naturalmente alla contrazione della profondità del contenuto, che viene prodotto e fruito su base veloce e contestuale e perde spesso di senso dopo poco tempo, appena è passata la contingenza spazio-temporale.
In questo contesto, in cui anche i tg sfornano versioni da sessanta secondi, è piuttosto prevedibile che la verifica delle fonti e la riflessione prima di agire/condividere/commentare non sia spontanea per delle persone che non sono mai state educate in tal senso.

Dovendo catturare l’attenzione in pochi instanti ecco dunque che la polemica, il gesto eclatante e la satira becera siano il modo migliore di attrarre l’attenzione e generare visibilità, perché è più facile distruggere che costruire e bene lo insegna anche la politica, sia con i partiti tradizionali sia soprattutto con il Movimento 5 Stelle che ha fatto della critica aggressiva e violenta allo status quo il suo tratto distintivo, fatto innegabile comunque la pensiate sulle sue proposte.
Anche molti autori estremamente seguiti in rete devono, a mio avviso, gran parte della loro visibilità al fatto di trattare dei temi di largo interesse e ad alto contenuto di passionalità e polemica, generando scontri verbali fra i commentatori e larghi numeri di condivisioni. Leggete qui questa simpatica sintesi di Rudy Bandiera.

I toni accesi poi si propagano a 360 gradi e fanno sì che anche le interazioni fra le persone e con le aziende e le istituzioni in rete si facciano sempre più tese ed aggressive, solo per basarmi sulla mia attività lavorativa infatti posso dire che man mano che passano gli anni le critiche che naturalmente possono manifestarsi sui social o negli altri punti di contatto diventano sempre più volgari, rabbiose e spesso pretestuose ogni giorno che passa.
La dinamica sociale, lavorativa e anche democratica certo non può trarre gran beneficio da questo modo di comunicare e di relazionarsi.

Il modello di  linguaggio offline non aiuta...
Il modello di linguaggio offline non aiuta…

Quello che mi preoccupa di più di tutto però è sempre la scarsa percezione delle conseguenze, non solo perché spesso notizie assurde vengono prese per vere ma soprattutto in quanto ciò che viene condiviso in rete è pubblico e per molti versi incancellabile, il pentimento dunque per una foto, una frase, un fatto privato spiattellato al mondo è sempre tardivo e può pesare sulla vita delle persone più giovani e impreparate.
Pensate solo ai recruiter che sempre più si documentano online sul loro candidato, all’importanza dei legami sociali per trovare un’occupazione e incrociate questo parametro con la difficoltà di trovare oggi un lavoro…

Alla fine di questo lungo, e spero non troppo noioso, ragionamento, mi sento dunque di dire che siamo in una fase sociale difficile e in un clima culturale teso che si riverbera sul digitale come sugli altri media, quello che possiamo e dobbiamo auspicare è una maggiore attività di educazione all’approfondimento, al dialogo non urlato e alla comprensione delle conseguenze dell’utilizzo scorretto degli strumenti che abbiamo in mano.

L’educazione civica, democratica e anche comunicativa delle nuove generazioni non può essere lasciata al fai da te davanti ad un mondo globale dove la gestione dell’informazione è la chiave per competere.
 
Io vedo molto da fare, e voi?

Che cosa ci dovrebbero insegnare le elezioni sui social, sulle persone e sulla comunicazione (multicanale)

Dopo qualche giorno di assestamento e digestione (parziale) degli esiti elettorali ho iniziato a fare qualche riflessione sugli insegnamenti e le evidenze di quanto è successo.
Di sicuro è stata la prima vera occasione in cui i candidati, ma anche le persone comuni, hanno utilizzato in modo massiccio la rete, e in particolar modo i social media.
Ne ho già parlato a inizio anno, e avevo evidenziato allora come alla fine ciò che avviene su questi mezzi non sia altro che uno specchio della realtà sociale e non un’isola esoterica in cui avvengono cose diverse e superiori.

Il Doodle eletttorale
Il Doodle eletttorale

A questa riflessione mi sento di aggiungere oggi alcune note:

1) Le persone “non addette ai lavori” ormai sono presenti in modo regolare sui social media, in senso più ampio e non limitato solo al solito Facebook. La cosa sicuramente disturba un po’ gli early adopters che vedono “imbarbarite” le discussioni ma nella realtà ora questi mezzi sono molto più lo specchio della società reale. Nel bene e nel male.

2) I social hanno potenziato, o almeno sostenuto, la comunicazione superficiale e per slogan che pure vediamo da tempo in televisione. L’aggravante, se vogliamo, è che online ci sarebbero gli spazi e i mezzi per l’approfondimento, ma prevalgono invece i rilanci senza letturala velocità, la contestualità e l’emozionalità che ho già considerato poco tempo fa parlando dei social video.
Ancora una volta, possiamo dire che è la causa sta nello strumento, o piuttosto è un fenomeno sociale che la tecnologia sta solo rafforzando?

3) Siamo ancora lontani dall’idea di utilizzare questi strumenti per ascoltare: al massimo è stata intercettata la rabbia ma non di certo i temi chiave, come invece si è fatto nella campagna Usa. E questo vale anche per il partito più digitale, il Movimento 5 Stelle, che infatti non è proprio fucina di maestri di contraddittorio e democrazia interna.
Un mezzo insomma ancora monodirezionale e usato in modo non corretto, senza nemmeno il plus del fundrising.

4) I mezzi digitali funzionano bene se lavorano assieme a tutti gli altri: ancora una volta, grande capacità è stata dimostrata da Grillo con il suo non essere in televisione in modo diretto, attirando però in questo modo l’attenzione dei media, oltre che a mixare la forza delle piazze con quella dei seguaci sul web.
Ma ciò che vince alla fine è il contenuto, il racconto, la sua forza e coerenza, come dovrebbe essere per tutta la comunicazione multicanale vincente.

Immagine tratta da http://www.broxlab.com

Al di là dunque della difficile situazione politica, quanto abbiamo visto mi dimostra una volta di più che ormai viviamo in un mondo in cui digitale, media tradizionali e vita reale sono intrecciati in modo inestricabile.
Altro che popolo del web…che ne dite?

Perché le persone di marketing non devono temere la tecnologia

Eccoci qui, la pausa estiva è finita da tempo ormai ma come sempre il lavoro è ripartito a grande velocità e ha assorbito tutto il tempo, non senza darmi però occasioni di raccogliere spunti, come per questo post.

Si tratta come sempre di cultura e organizzazione.
Ho l’impressione infatti che ancora oggi in Italia le persone che si occupano di marketing temano in qualche modo la tecnologia, nel senso che non vogliono entrarci in dettaglio pensando di non capirla e che sia “roba da informatici”.
Non parlo in questo solo di un’eventuale vecchia guardia (l’intelligenza per altro non ha età) ma anche delle nuove leve.
Nel resto del mondo si va affermando invece una figura di chief marketing technologist che ha ancora contorni un po’ sfumati ma i cui numeri sembrano essere di tutto rispetto.

Marketing Technology Landscape Supergraphic (2012)

Qual è il punto? Il marketing digitale non solo è sempre più pervasivo ma è anche dannatamente complesso e interconnesso con tutti gli aspetti di business: troppo tecnico per il marketer che rifiuta di scendere in profondità e troppo ampio per chi lo guardi da una prospettiva It tradizionale.
Ovunque questa percezione dell’importanza delle nuove tecnologie sta portando il marketing a diventare il principale ente aziendale che spende in software e in una miriade di strumenti, non sempre in modo coordinato con le funzioni “informatiche”.

Per non disperdere però questi investimenti e, soprattutto, le enormi potenzialità date dalla web analytics, dal socialytics di cui ho parlato da IDC delle settimana scorsa e del big data, occorre una serie di professionalità nuove, in grado di capire in profondità e con strategia tutto questo.
C’è chi può permettersi di prendere queste risorse dal mercato, come WalmartLabs, ma anche al di là della figura del chief marketing technologist ritengo che le persone che lavorano del marketing debbano superare la loro diffidenza verso i nuovi strumenti.
La sola lettura degli analytics ricavabili da un sito web aziendale per esempio è una fonte enorme di dati, ma quanti sanno che esiste questa possibilità? E i social? E l’integrazione fra gli strumenti del digital e l’offline? Chi ha una visione di insieme integrata con tutti gli altri strumenti del business?

Infine per il marketer si tratta di una questione di sopravvivenza: anche le figure di estrazione tecnica si stanno avvicinando al business e in questo processo di convergenza chi saprà adattarsi meglio alle nuove sfide rivestirà i ruoli chiave di domani.

Voi che ne dite?

In questo mondo digitale la capacità vincente è quella di… saper unire i puntini!

Nello scenario delle nuove professioni il digitale ha sicuramente un ruolo importante e ricco di sfaccettature, tanto che ancora oggi è piuttosto difficile classificare ruoli e competenze, in molti casi davvero specialistiche ma non per questo meno utili.

Il continuo aumento della complessità e la velocità dei cambiamenti dal canto loro non aiutano certo a mettere facilmente dei punti fermi, rassicuranti e sempre uguali a se stessi.

big data

In più, la content curation e i filtri più o meno automatici che gli strumenti online offrono permettono un’esperienza sempre più su misura di fruizione dei contenuti che però, talvolta, rischia di rendere ciechi rispetto all’insieme.

Questa apparente frammentazione nasconde tuttavia un’opportunità straordinaria per delle persone che non sono né imprenditori che creano nuove startup né specialisti di settore che conoscono ogni piega di uno specifico ambito: quella di poter cogliere i fenomeni emergenti e collegarli in un unico disegno.

Il social ne è un esempio piuttosto emblematico: cambiano infatti i player ma per chi ha saputo impostare una strategia in cui questi strumenti sono solo una parte di un mondo di contenuti e di idee più vasto e sotto il proprio pieno controllo questo fatto non è che un dettaglio.

Ancora di più tali considerazioni valgono per il mobile, una tecnologia che sta diventando la chiave per collegare il mondo fisico a quello virtuale e viceversa, fino a giungere a punte davvero spinte come nel caso del so.lo.mo.
Il valore attribuito a tante startup del settore (tra cui l’Italiana Glancee) deriva proprio dal loro prestarsi a numerosi scopi che il marketer può inventare a partire dalla propria strategia di insieme.

Il big data infine è un altro degli esempi che si possono fare per evidenziare come da una quantità enorme e caotica di dati si possa generare una visione di insieme che costituisce un vero vantaggio competitivo.
Bene lo hanno capito i big della rete come Facebook, Microsoft, Apple, Amazon e tanti altri che stanno costruendo un’offerta a 360 gradi fatta di hardware, software, contenuti e esperienze.

Bisogna però sapere cogliere i trend e capire come collegare fra loro tanti mezzi che, presi singolarmente, hanno in fondo un valore relativo e soggetto alle mode.
Chi invece riesce a capire come tessere una tela con tutte le opportunità che gli capitano davanti, con una mente aperta e con le competenze giuste può davvero cambiare l’azienda, le sue sorti e la sua organizzazione.

Il web non era (ed è) fatto di link? Ecco, anche l’ecosistema digitale alla fine non è altro che qualcosa che innerva il business e la società e che chiede di essere sfruttato e capito, senza essere schiavi della tecnologia del singolo momento.

Voi che cosa ne pensate? Quali sono le vostre sensazioni in materia?

Cosa vorrei dirvi (con l’aiuto di Brian Solis) sui media digitali…

Il digitale ha spesso il curioso effetto di defocalizzare le persone e le aziende dagli aspetti più fondamentali per dirottare l’attenzione sulle cose marginali.
A parte tante casistiche quotidiane, un esempio è sicuramente la questione dell’ acquisto di finti fan o follower sui social media che tanto clamore ha suscitato sui giornali nelle settimane scorse.

Dunque, dopo le varie ed eventuali che ho letto in questi giorni, sento il bisogno di rinverdire una delle distinzioni più importanti del panorama dei media digitali, ben poco chiara alle aziende: owned media, paid media e earned media.
Ne ho parlato non molto tempo fa: esistono degli strumenti di cui abbiamo il controllo perché nostri (sito, database clienti) altri per cui paghiamo la visibilità (pubblicità) e altri su cui ci dobbiamo conquistare l’attenzione e lo spazio (social media).

Al crescere della visibilità naturalmente decresce la possibilità del controllo e questo pone un dilemma a chi ha capito la differenza: meglio reinventare in casa strumenti già esistenti o consegnare ad altri i propri clienti?
Il tema c’è ma può essere affrontato serenamente se costruiamo la nostra presenza digitale dalle basi e non dalla fine: partire infatti dagli earned media equivale a inaugurare un ristorante senza metterci prima la cucina, cosa paradossale ma assai frequente, ahimè, quando il focus non è più il business offline.

Per essere più efficace proverò dunque a spiegare come andrebbe gestito il nostro ecosistema digitale con l’aiuto di Brian Solis e del modello che lui introduce in un suo recente articolo: the brandsphere (immagine sotto).

Fonte: Brian Solis

Ai tre tipi di media che ho già citato Solis aggiunge qui altre due casistiche:

A) Promoted: spazi promozionali ma non puramente di advertising nel social (es. Twitter’s Promoted products e Facebook’s Sponsored Stories)
B) Shared: piattaforme di co-operazione e co-creazione tra clienti e brand (es. Dell IdeaStorm e Starbuck MyStarbucksIdea)

In tutti i livelli Brian Solis vede però come punto di partenza il brand come creatore di storie e i clienti e i contributori come storytellers che raccontano, diffondono e arricchiscono quanto inizialmente messo a disposizione.
Questo significa che se non c’è un punto di partenza, al centro del disegno, non c’è nemmeno la sfera dell’ecosistema del brand.
Gestire dunque i propri asset digitali in modo corretto e strategico è la chiave per poi operare con successo nel complesso mondo digitale e multicanale che oggi dobbiamo affrontare.

Senza entrare in grandi dissertazioni filosofiche vi sarà chiaro allora come acquistare un certo numero di sconosciuti (e normalmente) inesistenti profili sui social non sia un grande veicolo di successo, dato che non vi serviranno a nulla, se non forse a dire al vostro capo che siete bravi su questo canale visto che avete già acquisito tanti fan. E in quel caso spero per il vostro bene, anche se non per quello dell’azienda, che lui non sia competente in materia…

Se invece vi state rendendo conto di cosa va fatto davvero, intanto costruite un buon sito, un database di clienti, dei validi contenuti e un piano di webmarketing e, dopo, leggetevi anche questo post sul Social Media’s Critical Path: Relevance, Resonance e Significance a quello punto vi potranno essere termini comprensibili.

So che sembro un po’ saccente ma trovo che questo punto debba essere ben chiaro, specie a chi si occupa di strategia digitale, perché la mancanza di questi concetti è alla base dell’approccio dei tanti presunti esperti che popolano lo scenario italiano e non solo. E voi che ne dite? Quanto è chiaro tutto ciò ai vostri capi e colleghi?

Finti follower, tanto hype e una domanda: qual è l’obiettivo per cui si comprano profili sui social?

In questi giorni ha destato molto scalpore il caso sollevato da Marco Camisani Calzolari che ha comprato con successo un grosso quantitativo di follower finti su Twitter a un costo irrisorio, per dimostrare la facilità e la diffusione di queste pratiche.

Un esempio di vendita di fan

Il tutto ha avuto ampio riscontro anche sui media generalisti che hanno gridato allo scandalo rispetto questo tipo di comportamenti scorretti, assolutamente deprecabili ma purtroppo non nuovi agli addetti ai lavori.

Come giustamente rilevato da Marco ci sono molti che fanno i furbi ma io trovo anche che ci sia una colossale ignoranza su tutte queste tematiche da parte di aziende (e media), con il costante pensiero che certi strumenti che si usano (spesso male) per finalità private siano per questo già patrimonio di conoscenza dell’azienda. E se anche ciò non fosse, abbiamo sempre alla porta una schiera di guru del settore che dopo aver speso una quindicina di giorni online si sentono pronti a cambiare le sorti strategiche delle aziende.

Mancano invece alcuni elementi di base, che proverò a sintetizzare in pochi punti.

La prima domanda importante che nessuno si pone è: che cosa me ne faccio di questi follower o fan che acquisisco? Poniamo che io abbia raggiunto con politiche scorrette un volume elevato di persone che figurano sulle mie pagine social, di cui però non so praticamente nulla e che non interagiscono con me in alcun modo: che valore hanno?
Forse solo quello di mostrare ai vertici aziendali che abbiamo un caso di successo (?!?) sui social network che a loro volta sono “lo strumento di marketing del momento”.

La faccenda poi si lega a doppio filo al tema dei social media come parte di un ecosistema digitale che ciascuna azienda può attivare per raggiungere i propri obiettivi attraverso una specifica strategia.
In questa frase ci sono già due elementi che chi acquista dei fan al chilo omette: gli obiettivi, che non possono essere un mero “io ho più fan di te”, e la strategia digitale complessa che dovrebbe portare l’azienda a costruire dei database/community proprietari e attivare diversi mezzi di cui i social media sono solo una parte, seppure importante.

Infine, se vogliamo iniziare a parlare di ROI non possiamo non considerare la differenza fra fan attivi e semplici numeri, anche perché solo gli attivi producono dei dati davvero utilizzabili in ottica di big data e business intelligence.
Ma mi sembra che se ad oggi stiamo ancora discutendo sul numero grezzo il mondo quel mondo è molto molto lontano e la scelta di utilizzare certe piattaforme tecnologiche è dovuta solo all’hype mediatico e alla moda. E dunque la delusione è inevitabile, tanto per le pmi che per i grandi colossi.

Voi che ne dite?

E se dall’economia dell’attenzione ci stessimo spostando verso l’economia dei dati?

Uno dei grandi problemi che i brand e gli individui hanno oggi è quello di poter emergere dal rumore e dall’overload di informazioni per poter essere rilevanti verso un certo pubblico, nicchia o un mercato di massa che sia.
È un tema forte dell’economia dell’attenzione in cui ci troviamo: gli strumenti per comunicare ormai sono alla portata di tutti, moltissimi li usano (bene o male, ma non è questo il punto), pochi invece ascoltano e ne scaturisce un gran rumore, in cui è difficile cogliere cosa ci interessa.

Per ovviare a questo ci si attrezza, in vario modo: la content curation è un tema forte del momento, si continua a parlare di web semantico e di nuovi strumenti di ricerca (un’altra volta vorrei discutere di Volunia) e, in genere, si fruisce dei nuovi media attraverso singole applicazioni che consentono di fare agilmente poche cose alla volta.

Chi vuole dunque fare marketing e strategia all’interno di questo contesto sempre più affollato oggi si concentra molto sul riuscire a farsi sentire. E molto poco sull’ascolto.
Ma io intravedo dietro a questa bagarre un’opportunità straordinaria, e difficile da sfruttare senza cognizione di causa, che è quella dei dati.


Pensiamoci un attimo: se vediamo l’ecosistema digitale odierno (ribadisco: ecosistema) e quello di business più in generale probabilmente non ci sono mai state tante possibilità di raccogliere, analizzare, correlare informazioni che vengono dalle fonti più disparate, online e offline, via computer o via altri device (primi fra tutti i cellulari).

É il tema di the big data di cui ho parlato altre volte recentemente e su cui stanno costruendo la loro fortuna alcuni dei big della nuova economia: Facebook e Google ad esempio fondano la loro redditività sulla vendita di spazi pubblicitari che si basano sulle informazioni e sui comportamenti dei propri utenti, con una precisazione e misurabilità sconosciuta ai vecchi media.

Mark Zuckenberg mentre illustra Open Graph - fonte: searchenginejournal.com

Sulla loro scorta, anche alcune grandi company private stanno iniziando a correlare e integrare tutti i dati in loro possesso, e chi ne ha i mezzi, come Walmart, si sta spingendo oltre con dei laboratori dove si costruiscono nuovi modelli di business.

Se il trend restasse questo il livello della sfida si alzerebbe notevolmente, in quanto:

A) basare le proprie strategie sulla comprensione e l’ascolto è molto più difficile che comunicare verso segmenti che abbiamo bene in mente ma che forse non esistono nella realtà. E non è poi un tema del tutto nuovo o solo legato ai media digitali.

B) raccogliere e strutturare i dati necessari a sviluppare il punto precedente è molto più complesso e oneroso che mettere una persona (magari in stage) a postare qualcosa su Facebook secondo l’ispirazione del momento

C) i dati vanno raccolti in una molteplicità di modi ma con una regia coerente alle spalle: ecco che tutti gli strumenti devono essere visti come un ecosistema che non può essere fatto di camere stagne e senza collegamento

D) qualcuno deve essere in grado di interpretare in una visione più ampia queste opportunità, leggendo in modo corretto le informazioni e trovando nuovi modi di costruire opportunità.

Guardando il tutto da un punto di vista economico la scelta sembra logica: si passa dal competere per una risorsa scarsa (l’attenzione) allo sfruttare una abbondante (il dato/informazione). Allo stesso tempo però non è molto interessante stare seduti su di un lago di petrolio se non lo si sa estrarre, raffinare e utilizzare (e/o anche vendere). E qui tornano in campo le persone e le nuove professionalità.

A mio avviso infatti una separazione netta fra “tecnologia” e “funzioni di business” perde di senso ma nelle nostre aziende questa evidenza ancora oggi fatica ad affermarsi.

Voi che cosa ne pensate? É troppo presto? É un trend momentaneo (io non credo)?

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