C’è un equivoco che ancora ha molto seguito nel marketing e nelle aziende, specie quando ci si sposta sui mezzi a vocazione più digitale: bisogna essere su quel canale o utilizzare quella tecnologia perché ci daranno un vantaggio o solo perché altri ci sono già.

IMG_0795.JPG

Certo grazie alla diffusione di internet, degli smartphone e a mille altri fattori sono cambiate molte cose negli ultimi anni rispetto agli strumenti per comunicare, e in particolare:

a) si sono pesantemente ridotte le barriere all’ingresso per la produzione di contenuti, sia in termini di competenze tecniche sia sul piano dei costi;

b) i privati ormai posseggono in molti casi una tecnologia pari o perfino migliore di quella aziendale e non è raro che la sappiano padroneggiare meglio;

c) in termini teorici la distribuzione su vasta scala è accessibile a tutti.

Fermiamoci un attimo: rispetto a quanto sopra nella gran parte dei casi il nostro pubblico come privati sono degli amici per i quali ciò che creiamo ha un significato che nasce dal contesto, dalle relazioni, da una storia e che prescinde da qualità e mezzo di produzione.
Ma se siamo delle aziende, quali dovrebbero essere i motivi per cui dovremmo avere successo ora che la fruizione dei media è frammentata tra tanti device, asincrona e personalizzata? Per quale (abbondante) mancanza di umiltà noi dovremmo essere per forza interessanti nel frastuono della conversazione collettiva?

Senza un palinsesto unico dei media che ci dia una mano a dettare l’agenda e i tempi, come avveniva per la tv tradizionale, e con tanti stimoli continui che arrivano nello stesso momento da fonti disparate per livello, qualità e vicinanza il solo esserci non serve. E anzi è controproducente.

La domanda giusta infatti non è tanto “dove devo essere” ma che cosa voglio fare e rispetto a chi. L’ormai storico acronimo POST viene rispettato infatti inconsciamente dagli utenti, per i quali la tecnologia è qualcosa di indifferente purché sia comodo per fare ciò che vogliono, ma non dalle aziende.

IMG_0794.JPG

Un contenuto di qualità e rivolto alle persone giuste quindi è la prima chiave.
La seconda è la capacità di gestirlo attraverso i canali e nel tempo: fondare una strategia su di un singolo media, specie se earned, vuol dire essere a rischio ad ogni nuovo arrivo nell’ecosistema.
In più, la possibilità (tecnica e organizzativa) di rilavorare e adattare in tempi brevi ad ogni nuovo mezzo le storie ciò per cui veniamo scelti dal cliente è il secondo pilastro di una sana capacità di cavalcare l’evoluzione frenetica dei nostri tempi.

Contenuto può poi volere dire tante cose ma al centro ci sono sempre le persone, le storie, le aziende, i bisogni, l’immaginazione: è questo che riempie di senso un libro come un post di Facebook.
E allora si capisce che partire solo dal supporto non è davvero una buon idea.

P.s. Tutto ciò si applica alla grande anche agli strumenti di collaboration, ma lì c’è materiale per più di un altro post!