L’Italia è pronta per la Smart Home, l’applicazione forse più vicina e “visibile” per la vita quotidiana dell’Internet of Things?
Stando ai dati della ricerca sulla Smart Home dell’Osservatorio Internet Of Things della School of Management del Politecnico di Milano, la nostra crescita tra il 2016 e il 2017(+35%, con un valore totale di 250 milioni di euro) risulta in linea con quella dei principali Paesi occidentali, anche se in termini assoluti i numeri sono ancora inferiori rispetto agli altri mercati europei.
Insieme alla digital transformation negli ultimi anni è cresciuto di pari passo l’interesse attorno ai temi dell’information security e della gestione della privacy, anche perché studi a livello nazionale ed internazionale evidenziano una preoccupante crescita delle minacce rispetto al passato, a cui sono esposte aziende di tutti i settori industriali, e che si traduce in perdite misurabili.
Si parla infatti di 5 forze: mobile, social network, data, sensor e location che solo oggi realmente oggi iniziano a esprimersi tutte a pieno nel quotidiano e stanno rendendo concreto il potere del contesto.
Il recente lancio di Google Buzz ha scaldato una volta di più il dibattito sulla privacy in rete e le preoccupazioni sulla tutela dei dati personali sui social media.
Non si può negare che il tema sia di grossa attualità ma credo anche che ci siano molti fraintedimenti a tale proposito.
Prima di tutto manca ad oggi la consapevolezza reale, nei giovanissimi ma non solo, che ciò che viene pubblicato in rete acquista una capacità di diffusione che non può essere controllata realmente. Un limite di cui le istituzioni si stanno rendendo conto, visto che pochi giorni fa c’è stato il Safer Internet Day 2010, dedicato proprio alla sensibilizzazione su questo problema.
Credo anche che in tale dibattito sfugga un fatto socio-culturale più profondo, ossia che il desiderio di esporre se stessi in modo totale al pubblico viene da più lontano, visto il successo dei reality show fin da tempi ben antecedenti l’ascesa dei social media. La differenza è solo legata alla facilità di accesso agi strumenti della rete, più democratici ed economici dei media broadcast. Dunque maggiore quantità di persone che si espongono ma identica pulsione di fondo, su cui non mi voglio produrre in analisi che lascio ad altri più competenti.
L’attenzione a cosa si posta è dunque la difesa più efficace per la privacy, inoltre è anche alla base dell’altro grande tema che vorrei sottolineare: la costruzione della propria identità in rete per motivi di crescita personale.
Me ne sono già occupato, il web sta diventando sempre di più fatto di persone che come mai prima nella storia possono valorizzare se stesse davanti ad un pubblico potenzialmente illimitato. Ecco che emerge in tutta la sua importanza il valore della presentazione che ciascuno sa dare di se stesso, con il medesimo criterio e la grande attenzione con cui un bravo marketing manager gestirebbe il proprio prodotto.
E’ il personal branding, nella definizione di Sebastiano Zanolli si tratta di “l’insieme di valori, competenze, visioni, passioni, caratteristiche e ricordi in genere che immediatamente chi ci sta attorno collega alla nostra comparsa fisica o anche solo virtuale”. Non più nickname nei forum o identità parallele su Second Life: qui si mette la faccia, e non in senso metaforico visto che moltissimi siti richiedono obbligatoriamente l’inserimento di un’immagine del profilo.
Dunque oltre all’attenzione a non postare cose sconveniente o pericolose è bene avere la massima coerenza fra l’identità digitale e quella reale, mettere in evidenza i nostri punti di forza negli ambienti dove questi possono essere apprezzati (e non dovunque a caso) e rispettare sempre gli interlocutori che ci troviamo davanti.
In conclusione dunque la rete non è rose e fiori e ci sono rischi reali per la privacy anche per chi è attento a ciò che fa sul web, tuttavia i vantaggi e le opportunità di una corretta presenza sui social media sono, secondo me, largamente superiori ai pericoli. E voi che cosa ne pensate?
L’indagine, che vuole “rappresentare come la Rete Italiana vive le tematiche relative alla tutela della privacy in generale e nel Web in particolare”, offre diversi spunti, che provo a sintetizzare per le parti che mi hanno più colpito.
Il livello di attenzione divide gli italiani in un terzo circa di molto preoccupati e di una quota abbastanza alta (29%) di sereni, mentre il 37% focalizza le proprie paure su aspetti specifici, su cui trionfa l’utilizzo della carta di credito (49%), seguita dall’uso del cellulare (37%).
Due dati peculiari ma che trovano rispondenza nella scarsa diffusione dell’e-commerce e nella bassissima tolleranza agli invii non desiderati sul telefonino (uno strumento molto personale e più connotato che in altri paesi) rispetto alla mail. Lo spamming via mail è infatti conosciuto dal 97% degli utenti e il 60% ignora i messaggi che riceve, segno di una certa tolleranza anche se poi un terzo dichiara di aver protestato almeno una volta per delle comunicazioni non autorizzate.
Ciò che mi ha stupito invece è il livello di conoscenza dei propri diritti, che risulta molto alto anche se di fatto poi la maggior parte degli utenti non legge le informative privacy, tanto che queste rappresentano un fattore inibente ad una registrazione per non più del 10% dei casi.
Dà invece molto fastidio il fatto di essere tracciati nei comportamenti, soprattutto se ciò avviene in modo passivo e inconsapevole, e sono vissute con disagio (comportando spesso l’interruzione della registrazione) le richieste di dati sulla propria posizione economica e finanziaria.
Molta meno attenzione è rivolta ad altri tipi di dati, probabilmente per scarsa consapevolezza delle conseguenze della messa in rete di foto e informazioni personali (ne ho parlato anche qui), livello di guardia che sale un po’ quando si parla di bambini.
Insomma sembrerebbe un paese informato, timoroso di truffe finanziarie e più spregiudicato rispetto al mettere in rete i fatti propri (e su ciò l’uso di Facebook insegna).
Ho visto con piacere nei giorni scorsi in televisione e sul web la campagna sociale “Posta con la testa” che invita i giovani, e non solo, ad usare prudenza nel caricare materiali personali in rete.
Sento spesso parlare infatti dei rischi per la privacy insiti nei social network ed in generale sugli strumenti del web 2.0, preoccupazione certamente non priva di ragioni che però nasce da un problema di fondo: la mancanza di cultura e consapevolezza del mezzo.
Infatti ritengo vi sia una reale assenza di percezione di ciò che avviene davvero quando, ad esempio, si posta una foto in rete: di fatto la nostra immagine diventa disponibile al mondo intero su di una macchina server da cui può essere scaricata in un istante e ricopiata in infiniti altri luoghi, senza possibilità reale di bloccarne la diffusione.
Nulla di male se ci sta bene così, un po’ meno se invece si trattava di qualcosa di riservato. Lo stesso vale, potenziato, per i profili dei social network: scrivere delle sbornie o delle avventure di una sera in un posto potenzialmente accessibile a tutti non sembrerebbe una buona idea offline, mentre sul web lo si fa con assoluta disinvoltura.
Con ciò non voglio difendere a tutti i costi i social network: la possibilità, ad esempio, di postare foto o commenti sui profili altrui sicuramente è qualcosa che lede il diritto alla privacy di ciascuno.
Anche sotto questo punto di vista tuttavia, escludendo i casi di malafede, ancora una volta torniamo al problema della mancanza di cultura: non vorremmo mai così male ad un amico da dire che tradisce la moglie davanti all’interessata, eppure lo facciamo sul suo profilo (pubblico) di Facebook.
Ancora, sempre restando su Facebook, quante persone che conoscete non hanno chiara la differenza fra messaggio (privato) e bacheca (pubblica) nello scrivervi qualcosa?
Ecco dunque che si pone il problema della consapevolezza delle conseguenze delle proprie azioni, cui si aggiunge la mancata comprensione di un fattore chiave: nel nuovo web ci si mette la faccia.
E’ finito infatti il tempo dell’anonimato assoluto dietro un nickname, ora quando siamo in rete facciamo, come ho scritto recentemente, del personal branding, ossia presentiamo noi stessi al mondo.
Sono certo che la pensiamo così saremo più attenti nei comportamenti e, magari daremo una mano anche ai più giovani a capire meglio come vanno davvero le cose (con un po’ di buon esempio).
Mi piacerebbe, al solito, conoscere la vostra opinione.