Normalmente sul mio blog non parlo in dettaglio delle cose che faccio in azienda ma faccio una piccola eccezione per un’iniziativa che mi sembra un case history interessante: i video auguri di Natale.
Tramite la piattaforma Video Auguri di New Vision Group dal 18 dicembre tutti coloro che lo desiderano potranno inviare ai propri cari un Video Messaggio augurale per le Festività Natalizie.
Protagonisti dunque ancora una volta gli Utenti che senza alcun download potranno registrare gratuitamente i propri messaggi video (o una e-card) ed inviarli ad amici e colleghi.
I navigatori avranno a disposizione fino a 30 secondi per esprimere la loro creatività e il loro stile, a loro volta i destinatari del messaggio potranno inviare un nuovo video augurio seguendo la medesima procedura e scatenando il marketing virale.
L’idea è quella di rendere più interattiva e divertente la comunicazione del Natale, in ottica ugc e 2.0, che ne dite?
P.s. io ne ho registrato uno per fare gli auguri a tutti voi, eccolo qui.
Questo post parte dalla lettura di un articolo di Repubblica.it, dove si riportavano dei dati Nielsen che segnalano il sorpasso dei social media (301,5 milioni di frequentatori ad agosto) rispetto alle email (276,9 milioni).
Un dato sicuramente rilevante, tanto più che i social media non sono una semplice modalità push come le mail: i miei follower infatti sono aggiornati delle mie attività e di quelle dei miei contatti anche senza un invio da parte mia di un messaggio individuale.
Questa caratteristica è un’ottima possibilità per comunicare ma nasconde un problema: il rumore.
Ne ho scritto un po’ di tempo fa, davanti alla quantità enorme di messaggi che riceviamo, quanto ancora la nostra mente e la nostra attenzione saranno in grado di gestire questo bombardamento? Non c’è troppo chiasso?
Di sicuro è impossibile limitare l’espressione di ciascuno, anche perché nel totale di questi scambi c’è sempre una parte di contenuti che ci interessano.
Fermarsi all’uso di un solo strumento poi sembra piuttosto difficile perché, a parte forse Facebook, ogni social media ha una sua specializzazione (messaggio di testo, foto, video etc.).
Per questo motivo lo stesso Google Wave, che sto testando con grande interesse, potrebbe non essere ancora la risposta, pur offrendo un bellissimo (e non immediato) ambiente di comunicazione e condivisione utile per l’enterprise 2.0.
Forse allora la soluzione sta in qualcosa che ancora non esiste, un web semantico in grado di farci avere, o creare, dei filtri che ci permettano in modo intelligente e dinamico di trovare quello che cerchiamo nel flusso di comunicazione, come per le merci della coda lunga.
Voi che ne dite? E’ solo un problema di organizzazione e gestione dei contatti o anche secondo voi il prossimo futuro ci riserva dei nuovi strumenti di comunicazione, che siano una sintesi di ciò che già oggi esiste?
Come viene sottolineato nella prefazione di Diego Masi (presidente di Assocomunicazione) il libro nasce dall’esperienza lavorativa dei quattro autori, che con la loro agenzia sono stati tra i primi a lavorare in modo sistematico sul buzz marketing in Italia.
Il Buzz (o viral) marketing è una disciplina che nasce in un contesto che è ben spiegato all’interno del primo capitolo del libro: il pubblico cambia e il nuovo consumatore postmoderno cerca il dialogo con l’azienda (e con gli altri consumatori) attraverso una serie di siti e strumenti raccolti sotto il nome generico di web 2.0.
Una parte importante di queste tecniche è il WOM (Word of Mouth), ossia il passaparola già studiato negli anni ’60 da Lazarfeld nonché oggetto del secondo capitolo, tra buzz marketing e viral marketing. Oltre agli obiettivi e alle strategie viene anche dedicato uno spazio importante all’etica professionale che è molto importante in questo ambito, visto che il WOM da parte degli utenti dovrebbe essere spontaneo e sostanzialmente gratuito.
Altro aspetto, trattato nel capitolo tre, è il social media marketing, ossia l’attività volta a promuovere un sito o un prodotto attraverso l’utilizzo dei social network e degli altri social media, attività spesso trascurata dalle aziende per mancanza di competenze interne oltre che di tempo.
Non mancano qui i casi di studio di successo, sia a livello di attività di marketing sia per quanto attiene quel mondo particolare e affascinante che sono le brand communities.
Come spesso evidenziato anche in questo blog prima di agire è importante conoscere che cosa si dice di noi sulla rete, attraverso il monitoraggio della reputazione online, i cui principi ed i tool di riferimento sono descritti in dettaglio nel capitolo 5.
Infine il libro si chiude su di una panoramica interessante dedicata ai modi in cui il buzz online si lega e si integra con il passaparola off-line.
In conclusione Buzz Marketing nei social media è un libro interessante e concreto, che unisce l’esperienza professionale degli autori a delle valide sintesi dei principali testi sul social media marketing, come L’Onda Anomala e La Coda Lunga.
Una lettura sicuramente consigliabile, specie per chi approccia per la prima volta questi temi.
Credo che in Italia sia piuttosto diffusa una falsa percezione della diffusione del web e delle nuove tecnologie in genere, che porta spesso le aziende a fare errori più o meno gravi.
Come ho scritto più volte un corretto approccio strategico tiene presente della penetrazione del web presso il proprio target e parte dagli obiettivi che ci poniamo nel comunicare con esso per poi, solo alla fine, scegliere la tecnologia.
Va benissimo allora prendere a riferimento le tecnolgie più trendy ma rendiamoci conto che l’Italia non è un paese all’avanguardia: secondo l’Osservatorio Italia Digitale 2.0 solo il 47% della popolazione tra 15 e 74 anni accede tramite internet ai servizi disponibili on-line; 1/3 delle aziende continua a non essere in rete, e tra le microimprese il tasso sale al 43%.
il vostro sito causa queste reazioni?
Questo dato non deve scorraggiare la ricerca dell’innovazione ma richiede equilibrio, non dobbiamo innamorarci delle nostre teorie ma capire, ascoltando molto, che cosa gli utenti già utilizzano per puntare prima di tutto su questi strumenti. Solo su questa base si potranno poi aggiungere servizi ed opportunità per proporli ai navigatori, magari diventando un tramite per far sperimentare. In caso contrario ci troveremo a chiederci, ad esempio, perché nonostante tutti i nostri clienti non conversano con noi sul nostro sito.
Purtroppo le mode influenzano invece molto le scelte aziendali, puntando su tecnologie di cui tutti parlano ma che gran poche persone usano davvero (ricordate Second Life?).
Un dubbio amletico: quale la scelta strategica più giusta?
In questo periodo ho avuto modo di accumulare diverse riflessioni, oggi ve ne propongo una che credo sia di una certa valenza strategica per un’azienda che vuole essere presente sul web: meglio creare propri servizi innovativi o usare gli strumenti offerti già fatti dai big della rete?
Nessuna delle due strade è giusta a priori e occorre fare una breve panoramica sulle due scelte.
Non è necessario inventare ogni volta la ruota: sicuramente questa è l’argomentazione chiave per dire che, ad esempio, sviluppare uno strumento di video sharing aziendale o un social network proprio (con tutte le difficoltà del caso) è una fatica notevole e in molti casi inutile quando ci sono già servizi simili sulla rete, come YouTube e Facebook.
Loro hanno risorse e know how per migliorare i servizi (che sono il loro core business) nonché milioni di utenti già iscritti che frequentano i loro siti.
Non è logico consegnare ad altri il bene più prezioso di un sito, i suoi utenti registrati: questo è invece l’argomento più significativo per dire che basare tutta la propria strategia su social media di terzi dove abbiamo una nostra pagina equivale a regalare a questi servizi le email e i lead in genere degli utenti. Ossia state lavorando per loro e non per voi stessi.
Trovo entrambe le cose vere e dunque la mia opinione è che ci vuole una scelta di equilibrio: la vostra fan page su Facebook o i vostri Tweets nella maggior parte dei casi sono troppo difficili da replicare su piattaforme proprie ma devono invece essere un punto di contatto che vi consente di portare alla registrazione sul vostro sito degli utenti.
E’ inutile ambire a creare una vostra piattaforma dove potete sfruttare l’esistente ma dovete avere la lungimiranza di usare tutti questi strumenti come leve di marketing e fonti di contatti per sviluppare la vostra propria strategia sui vostri propri media.
Questo non esclude nemmeno l’adozione di piattaforme di social media marketing white label per creare circuiti propri dove convogliare chi avete ingaggiato sugli altri media ma credo che tale strategia, senza un’ampia distribuzione della propria azienda sul web, rischi di essere poco visibile e di attirare troppo pochi contatti.
In conclusione dunque il mio consiglio è di usare con intelligenza gli strumenti free esistenti per favorire i vostri siti proprietari e di non avventurarvi da zero nello sviluppo preferendo piuttosto soluzioni customizzabili e brandizzabili fatte da esperti del settore.
Sabato scorso sono stato al Venezia Camp 2009 e come sempre quando si parla e ci si confronta con altre persone sono tornato a casa con degli spunti interessanti.
Uno in particolare mi ha fatto venire voglia di scrivere questo post: se il web è un luogo relazionale dove ci si incontra fra persone che cosa ci fa lì un’azienda e che senso ha per me iniziare un dialogo con un prodotto, come il frullatore di cui sopra?
Non è sicuramente un’osservazione priva di logica, e spesso la realtà dei fatti, specie in Italia, dà ragione agli scettici.
Dal mio punto di vista però è prima di tutto necessario distinguere fra presenze intelligenti e presenze sbagliate sul web 2.0 (termine che mi piace sempre meno, e ho già spiegato perché): che cosa vuole ottenere la nostra fabbrica di frullatori? E la strategia che ha messo in pista per farlo è quella giusta? E mi pongo in modo adatto ai miei interlocutori?
L’approccio post in effetti prevede diversi livello di coinvolgimento dei pubblici, dal puro ascolto fino alla collaborazione attiva che porta alla trasformazione dell’azienda stessa.
C’è poi un punto tanto banale quanto chiave: le aziende sono fatte di persone e se entriamo in contatto con queste ultime sicuramente svilupperemo delle relazione, ammesso esse che ci parlino con voce personale e umana, come chiesto dal Clue Train Manifesto (tesi n°3).
In questo caso potremo valutare se lo scopo per cui l’azienda ci ingaggia in questo rapporto è realmente utile per noi, come quando questo porta a soddisfare i nostri bisogni di cambiamento, evoluzione e diversa fruizione di un prodotto o servizio.
Non tutte queste relazioni sono davvero personali ma vi viene da chiedere se altrettanto possono essere definite quelle con tante connessioni ignote di un social network di cui abbiamo accettato l’amicizia in modo automatico.
Sono punti di contatto, occasioni, che partendo dal piccolo possono però smuovere grandi cose.
Non mitizziamo dunque troppo i rapporti di relazione sulla rete (quasi tutti per diventare qualcosa di più passano per un incontro personale) e cerchiamo di avere non pregiudizi verso le aziende, nemmeno quando facciamo due chiacchiere con un frullatore (molto meglio, con una pr di frullatori).
In fondo l’unico web relazionale cattivo è quello fatto male e con obiettivi sbagliati, per cui idee chiare e mente aperta, mi raccomando (aziende o privati che siate)!
P.S. attendo con ansia i pareri di eventuali produttori di frullatori 2.0…come loro!
Prima di tutto un elogio e un ringraziamento alla rete Wi-Fi del Comune di Venezia, grazie alla quale in questo momento sono connesso dall’interno dell’Arsenale.
Detto questo posto qui seguito la mia presentazione, che terrò al Venezia Camp oggi attorno alle ore 12.00 nella sala Cluster.
La provocazione che voglio lanciare è molto semplice, la tecnologia è solo lo strumento ma è l’approccio che rende persone e imprese veramente 2.0.
Come ben sapete è mio cavallo di battaglia, ne ho parlato già varie volte (ad esempio qui).
Gratis è un libro di Chris Anderson, direttore di Wired Usa e già autore di La Coda Lunga.
Il libro è totalmente dedicato al nuovo modello economico emergente di cui Google è l’indiscusso campione, il gratis, a ben vedere infatti sul web oggi pochi servizi sono a pagamento e quasi nessuno non ha almeno una versione entry level free.
Anderson è consapevole che si tratta di un concetto ancora difficile da accettare, tanto più che attorno alla parola gratis ci sono diverse ambiguità, dovute in parte ai termini diversi in cui nelle varie lingue si indicano “libero” e “gratuito”.
Per questo la prima parte del testo è dedicato alla storia del gratis, alla sua evoluzione nel marketing tra ottocento e novecento, ai casi più eclatanti e alla psicologia che sta dietro alle reazioni umane davanti a tale concetto.
Queste difficoltà diventano sempre meno marcate per i digital native (o lo sono di più, quando si cerca di far pagare qualcosa), in quanto questa generazione è cresciuta all’interno del fenomeno che è protagonista della seconda parte del libro: la rivoluzione digitale.
Se già per gli atomi (i prodotti tangibili) la corsa verso il prezzo zero è marcata per il web e i new media, fatti di bit, è praticamente inarrestabile e può essere rallentata solo da provvedimenti restrittivi.
L’economia tradizionale fatica a inquadrare tutto ciò nei suoi paradigmi perché da secoli ragiona sulla base del concetto della scarsità di risorse, e per questo gli uomini sono molto restii (in molti casi giustamente) allo spreco. L’economia digitale però è basata sull’abbondanza: i processori raddoppiano la loro velocità ogni 18 mesi (legge di Moore) ma la banda e lo storage di dati lo fanno ancora più velocemente, producendo modelli basati sullo “spreco” come YouTube.
In questo contesto è possibile lanciare dei servizi che un tempo non sarebbero stati sostenibili (si pensi appunto a banda e storage necessari a YouTube) e permettersi di consumare risorse dal bassissimo costo marginale in attesa di capire al meglio il business.
E’ questa la parte più convincente del libro: un esempio illuminante dell’accelerazione di questi fenomeni è il fatto che Microsoft ha impiegato decenni per capire come rapportarsi a Linux ma Yahoo ha avuto pochi mesi per poter reagire alla free mail di Google (Gmail).
Anderson passa poi a illustrare vari modelli di business basati sul gratis e confuta alcune delle più diffuse argomentazioni contro il free.
Qui il testo resta interessante ma è molto più difficile per l’autore fornire argomentazioni definitive a favore delle sue tesi perché molte azioni e reazioni sono indirette e difficilmente misurabili in modo certo.
Quello che resta alla fine dalla lettura è una visione ben documentata e affascinante di come l’economia stia evolvendo grazie all’avvento della rete e dell’abbondanza di risorse informatiche.
A volte forse resta difficile comprendere a pieno tutti i fenomeni e si hanno meno certezze rispetto ai temi trattati in La Coda Lunga ma non si può negare che, almeno in parte, tutti stiamo già convivendo con questo nuovo paradigma, anche se non nella sua forma più pura e estrema.
Di fatto i navigatori sempre più fruiscono il web con una modalità che non è più quella della navigazione sequenziale all’interno di una serie di siti preferiti, agevolati daifeed rss, i servizi di aggregazione comeiGoogle e Netvibes, applicazioni come i widget e le web slice.
Nel libro di Anderson si parla del fatto che l’economia digitale sta favorendo un nuovo modello economico, basato sul gratis, grazie alla crescita combinata dello spazio su disco, dei processori e della capacità di banda.
Che cosa c’entra tutto ciò con i feed e gli aggregatori? Beh, l’unica cosa ad essere scarsa in tanta abbondanza è il tempo dei gli utenti: potete offrire quanti contenuti volete ma dovete considerare che non tutti verranno a visitare sempre il vostro sito.
Per questo dovete offrire gratuitamente contenuti e, perché no, anche servizi complementari al vostro business e lasciare che possano essere fruiti anche fuori dal vostro sito, a patto che poi alla fine essi riportino da voi.
E’ l’esempio di Google news o anche di The Huffington Post: è vero che vanno a prendersi i contenuti dei giornali senza autorizzazione ma bisogna anche dire che per leggere il contenuto completo si deve aprire il sito originale, con un aumento del traffico.
Dunque non si deve temere che altri possano attingere ai vostri contenuti gratuitamente e senza permesso, a patto che poi questa agregazione riporti gli utenti da voi.
Il contenuto reso esportabile dunque dovrà essere un assaggio chiaro ma non esaustivo, che deve essere completato visitando il sito o un altro servizio web aziendale. Dovrà essere ben visibile nelle pagine aziendali e avrà più efficacia se sarà già accompagnato da bottoni (forniti gratuitamente dai vari servizi) che ne permettono velocemente l’aggiunta e/o lo sharing sulle maggiori piattaforme.
Naturalmente anche il contenuto dovrà essere di qualità e frequentemente aggiornato, per meritarsi un posto di riguardo nella mente e nel browser del cliente, e più material sarà disponibile e maggiore sarà la possibilità di innescare quegli effetti di coda lunga di cui ho già parlato in passato.